il commento del giorno
Mercoledì 26 novembre 2025
Con l’apertura delle urne, è partita la discussione sui risultati. Un primo dato è già sicuro: l’astensionismo si è ulteriormente incrementato. Un fattore che verrà stiracchiato da tutte le parti e utilizzato per giustificare delusioni e insuccessi. Eppure, se ormai oltre la metà degli aventi diritto diserta le urne, sarebbe il caso di iniziare a riflettere meno genericamente sul fenomeno. Tra l’altro, continuando a consolarsi con i risultati elettorali riportati in percentuale, la percezione del fenomeno relativo a chi vince e chi perde, risulta distorta.
Tranne rare eccezioni, in voti assoluti, quasi sempre perdono tutti.
Ma, se lo scopo primario delle elezioni è decidere chi debba governare le città, le Regioni o il Paese, la carenza di partecipazione non comporta alcuna riduzione del potere di chi risulta “vincitore”. Anzi, per certi aspetti, lo rafforza.
al contrario, per chi ritiene che le elezioni siano anche un momento di partecipazione popolare, per quanto delegata a partiti, movimenti e liste civiche varie, il tema dell’astensionismo non può essere accantonato, per ritornare prepotentemente soltanto dopo le prossime elezioni.
Naturalmente, da quando la nostra giovane democrazia ha mosso i suoi primi passi, non si è mai determinato il fenomeno della piena partecipazione.Nel 1948 partecipò alle elezioni “politiche” il 92% degli aventi diritto. Un dato rimasto stabilmente al 94% nel 1953 e nel 1958. Fino al 1976 l’affluenza si è attestata intorno al 93% ed era ancora all'88% nel 1992.
Quindi, nei primi quarantaquattro anni della Repubblica, la “diserzione” di un 10% di potenziali elettori poteva essere senz'altro essere considerata fisiologica. In quel contesto, sebbene fosse già presente un filone di pensiero che si potrebbe definire di “astensionismo attivo” caratterizzato ideologicamente (non votare lotta) o dovuto a valutazioni personali (sono tutti uguali), la “sfiducia” - che si poteva anche manifestare attraverso il voto nullo o le schede bianche - si fondava in ogni caso sulla scelta prevalente di andare ai seggi.
Una partecipazione in parte determinata da false interpretazioni relative alla obbligatorietà del voto o su eventuali conseguenze che sarebbero derivate dal mancato esercizio del diritto/dovere. Ma, in ogni caso, forti della partecipazione attiva del 90% degli elettori, le campagne elettorali si potevano tranquillamente concentrare sulla capacità di attrarre il voto di chi alle urne si sarebbe recato. Spostando, quindi, voti veri: quando non milioni, centinaia di migliaia di persone in carne ed ossa il cui consenso avrebbe, poi, determinato i risultati finali e il numero di consiglieri (comunali, provinciali o regionali), deputati e senatori eletti.
Data la premessa, sarebbe opportuno, per iniziare una riflessione mirata, provare a segmentare le tipologie che concorrono a formare l’ampia platea dei “non votanti” per capire meglio su quali leve agire per provare a invertire la tendenza.
1. Astensionismo fisiologico – per impedimento
Poniamo che negli ultimi venti-trenta anni il tetto dell’astensionismo fisiologico o per impedimento si sia incrementato con la frenetica evoluzione della nostra società. Banalmente, lo sfalsamento tra comune di residenza (dove si è tenuti a votare) e effettivo luogo di domicilio, per motivi di lavoro, studio, esistenziali. Riuscire a determinare questo primo dato ci può permettere di relativizzare l’effettiva incidenza dell’astensionismo; inoltre potrebbe comportare la rivendicazione di “correttivi” che sarebbero di facile adozione (revisione attiva delle liste elettorali, voto a distanza, semplificazione e informatizzazione delle procedure). Poniamo che, in ogni caso, questo primo segmento di astensionismo “irrecuperabile” (potrebbe anche non riguardare sempre gli stessi soggetti) sia quantificabile nel 20% degli aventi diritto. Un elemento che, da solo, mette il piombo nelle ali per il raggiungimento del quorum nel caso dei referendum abrogativi. Una materia a sua volta da riordinare prevedendo, per esempio, un numero più alto di firme da raccogliere bilanciato dalla fissazione del quorum sulla base dello storico delle ultime elezioni politiche.
2. Astensionismo attivo.
Forme di astensionismo attivo, così come prima sommariamente richiamato, potrebbero senz'altro essersi rafforzate con il crescere di una maggiore informazione e sensibilizzazione degli elettori che scelgono consapevolmente e dopo attenta riflessione di non recarsi alle urne.
Penso sempre a Giorgio Gaber e al suo sarcastico distacco: una matita perfettamente temperata […] come son giuste le elezioni, cantato già nel 1976 proprio con Le elezioni. Una posizione “elitaria”, in controtendenza rispetto alle aspettative che, legittimamente, ancora si dispiegavano nel paese. A poco è servito ricordarci, qualche anno dopo, che “qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona” se, poi, l’unica volta (sua affermazione) in cui si è recato a votare lo ha fatto per la moglie, candidata nelle liste di Forza Italia. Il ricorso alle elezioni, con tutte le evidenti contraddizioni della democrazia “borghese” era la strada che, dal Cile di Allende all'Italia di Togliatti e Berlinguer, era stata individuata dal movimento socialista e comunista per dare voce e speranza alle aspettative di giustizia sociale delle masse popolari. Non da meno, è una tendenza con la quale necessiterebbe confrontarsi andando oltre i semplici appelli moralistici. Pur non disponendo di specifici dati al riguardo (e in carenza di sondaggi sulla materia), si può realisticamente ritenere che questa area di “non voto”, pur rafforzandosi alla luce dei tanti, pur legittimi motivi che vengono forniti dalle cronache quotidiane così come dai macroprocessi nazionali e internazionali, non sia l’elemento determinante per spiegare i picchi crescenti di astensionismo.
Intorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso si è venuta a determinare una profonda crisi del sistema politico che, con qualche semplificazione, si riconduce al crollo del muro di Berlino, a “tangentopoli”, alla fine dei grandi partiti di massa. Il numero dei votanti si è ridotto progressivamente, toccando la soglia psicologica dell’80% nel 2008. Nei cinque anni successivi si è perduto un altro 5% di elettorato. Già dal 2013, quindi, un quarto degli aventi diritto non va più a votare. Senz'altro, anche limitandosi soltanto a questo segmento, si possono trovare motivazioni da indagare e approfondire.
Si può ritenere l’esistenza di un rapporto causa-effetto tra la crescente disaffezione e l’introduzione di nuovi modelli elettorali? Se, anche soltanto parzialmente questa fosse una delle motivazioni, avremmo un ulteriore elemento su cui riflettere. Sulla scia di altri Paesi nei quali il fenomeno di una scarsa partecipazione al voto si era già manifestato, paradossalmente (o forse neanche tanto) la rincorsa a sistemi elettorali finalizzati a garantire la “stabilità” dei governi, ha allontanato dal voto i governati. Certo, l’offerta è ampia e differenziata, ma l’evidente consapevolezza che (tra soglie di sbarramento e premi di maggioranza) il voto dato a forze “minoritarie” potrebbe non trovare rappresentanza, non incoraggia la partecipazione. Tanto per fare un esempio, con i sistemi elettorali che si sono succeduti negli ultimi decenni, in Italia i radicali di Pannella e Bonino, quelli del divorzio, dell’obiezione al servizio militare e del diritto all'aborto assistito, non avrebbero mai avuto voce in Parlamento e analoga sorte avrebbe accompagnato le pur travagliate esperienze elettorali delle forze politiche alla sinistra del PCI. E le specifiche sensibilità politiche di Giorgio La Malfa, Giovanni Spadolini o Giovanni Malagodi, non avrebbero avuto diritto a esprimersi autonomamente, dovendosi “appiattire” sul meno peggio. E, per restare in casa nostra, con percentuali di poco inferiori al 4% la lista AVS non ha eletto rappresentanti nei consigli regionali di Calabria e Puglia.
3. Astensionismo per disaffezione.
Ancora nel 2018, alle elezioni politiche ha votato il 73% degli aventi diritto. Si può fissare, intorno a questa data e a questo dato, una sorta di linea di demarcazione rispetto alla disaffezione di massa al voto. Certo, quel 27% fa effetto. Eppure saremmo in tanti, oggi, a considerarlo una sorta di livello di guardia da non abbassare ulteriormente. Inizia a consolidarsi un’area di non voto con motivazioni più diluite rispetto a quelle “ideologiche”. Per restare nel campo della canzone d’autore, già nel 1985 Francesco De Gregori ci metteva in guardia da chi alimentava il disimpegno e il qualunquismo utili alle classi dominanti.
E poi ti dicono, "Tutti sono uguali"
"Tutti rubano nella stessa maniera"
Ma è solo un modo per convincerti
A restare chiuso dentro casa quando viene la sera
"Tutti rubano nella stessa maniera"
Ma è solo un modo per convincerti
A restare chiuso dentro casa quando viene la sera
E, implicitamente, a non andare a votare!
Naturalmente, i processi sono molto più fluidi e le motivazioni dell’astensionismo attivo (ideologico) hanno contribuito e contribuiscono a incrementare la disaffezione al voto anche tra chi non intende connotarlo con argomentazioni socio-politiche. Perfino alcune parole d’ordine di partiti/movimenti/liste che partecipano regolarmente alle campagne elettorali, producono soltanto in minima parte consenso attivo agli appelli a votare l’unicità e l'alternatività di chi si pone contro tutti gli altri schieramenti, tra i quali non si riconosce alcuna neanche limitata differenza. Se si dichiara «sono tutti uguali, tranne noi», il rischio che arrivi soltanto la prima parte del messaggio è molto forte e contribuisce maggiormente ad alimentare le evidenti tendenze in atto. Altrimenti, anche in considerazione del fatto che bastano sempre meno voti validamente espressi per potersi ritenere soddisfatti, alcuni soggetti che si caratterizzano come “alternativi”, non si limiterebbero, tranne rare eccezioni, a raccogliere piccole quote percentuali di elettorato, quasi mai utili per superare gli antidemocratici sbarramenti prima richiamati.
Sarebbe interessante capire quanti altri punti percentuali lasciano sul terreno le iniezioni di sfiducia che, pur partendo spesso da fattori reali, raggiungono una popolazione sempre meno interessata a farsi un’opinione politica andando oltre le frasi fatte, i messaggi effimeri e le “denunce” a mezzo social che – spiace dirlo, poiché ha contagiato anche aree a noi vicine – rischiano di diventare l’unica fonte di informazione, figurarsi di approfondimento. Banalizzando: quanta opinione “politica” si forma seguendo Striscia la notizia e il Gabibbo e quanta “coscienza” si forma, invece, seguendo le inchieste di Report? E la cultura, il cinema, la saggistica, la letteratura, quanto contribuiscono a “spostare” gli equilibri? Ma senza farsi eccessive illusioni. È probabile che tra coloro che sono usciti dalla sala cinematografica, con le lacrime agli occhi, dopo la proiezione di C’è ancora domani, il tasso di astensionismo sia stato molto basso. Ma non sarei tanto sicuro di un esito simile all'uscita delle proiezioni di Io sono Rosa Ricci o di Nino. 18 giorni. E neanche azzardo l’esito di un sondaggio fatto allo stadio.
Attraverso quale percorso si viene a determinare la convinzione che sia del tutto inutile andare a votare? Sempre più spesso capita di ascoltare motivazioni che, partendo da un disagio, dall'impossibilità di poter fruire di un diritto basilare (la salute, la casa, il lavoro), arrivano alla conclusione di disertare le urne. Non si tratta di gesti eclatanti, esemplari: un’intera comunità che manifesta pubblicamente la propria diserzione dal voto meriterebbe rispetto e otterrebbe, quanto meno,l'attenzione attesa. No, siamo di fronte a un processo strisciante, individuale, silenzioso. Come se, giorno dopo giorno, un altro deluso, un altro sconfitto, spegnesse l’interruttore del proprio sentirsi cittadino. Una progressiva rinuncia a esercitare un diritto poiché privati (parzialmente o totalmente) di quelli attesi. «Non avranno il mio voto...», «il mio voto non lo meritano». Ma, sempre più spesso, chi esercita il potere preferisce proprio che quel voto non venga espresso, che gli elettori se ne restino a casa.
4. Nel baratro.
Tra il 2018 e il 2022 si sono persi altri nove punti percentuali: passando dal già esile 73% al 64%. Il dato delle elezioni politiche risulta il più omogeneo per azzardare qualche riflessione sulla base dei freddi numeri. Tendenzialmente, alle elezioni europee e alle elezioni regionali la partecipazione è ancora più bassa; negli ultimi anni alle amministrative si attesta sempre più spesso sotto il 50%. Diversi commentatori ritengono che, sostanzialmente, alle forze politiche questo dato possa anche andar bene. L’elettorato (quello che ne resta) una volta "fidelizzato" non si sposta tanto facilmente da uno schieramento all'altro (semmai diserta) e la partita si può giocare anche soltanto semplicemente attraverso la migliore lettura della compagine da comporre, sulla base della legge elettorale vigente.
Per le elezioni politiche, una volta usciti dal sistema elettorale proporzionale adottato dal 1948 e in vigore per oltre quaranta anni, si sono alternati, in rapida successione, diversi meccanismi elettorali: dal più equilibrato, sebbene imperniato su un modello maggioritario, sistema adottato nel 1993 primo firmatario Sergio Mattarella, passando alla legge del 2005 (pensata esclusivamente per arginare un probabile successo del centrosinistra), che lo stesso proponente Calderoli battezzò “Porcellum” e poi dichiarata incostituzionale, fino al vigente sistema (definito misto poiché si basa su collegi uninominali e ricorso al proporzionale con sbarramento); quello che ha consentito alla coalizione di destra, unica a presentarsi unita, di conquistare la maggioranza dei seggi alla Camera e al Senato. Dietro i tecnicismi – qui soltanto sommariamente richiamati – non si rileva alcuna volontà del legislatore di recuperare e incentivare la partecipazione. Al contrario, prevalgono esclusivamente indicazioni per garantire la cosiddetta “governabilità”, anche a costo di forzare e deformare l’effettiva volontà degli elettori. Una formula a lungo inseguita, considerata prioritaria perfino per risollevare il Paese dalla profonda crisi economica e sociale nella quale ristagna da tempo. Sono stati indicati come modelli virtuosi i sistemi elettorali di altri Paesi europei (Francia, Germania) che, a loro volta, adesso risentono del crescente astensionismo e di forme di instabilità finora sconosciute.
Quanto costano, in termini di disaffezione, questi artifici che non consentono all'elettore di scegliersi, con chiarezza, la lista e il candidato preferiti? E non è da escludere che il governo in carica si appresti a introdurre ulteriori modifiche che saranno valutate sulla base degli interessi contingenti della fase che si è aperta proprio dopo il rinnovo di diversi importanti Consigli regionali. D’altra parte, è il medesimo approccio con il quale Trump sta mettendo mano al sistema elettorale degli USA per garantirsi uno scenario futuro a lui più favorevole.
Naturalmente, non sto affermando che l’incremento dell’astensionismo sia provocato dalla mancata condivisione da parte dei cittadini delle regole del gioco. Sto sostenendo che, con cinismo, si agisce sulle regole del gioco, per scoraggiare ulteriormente gli elettori.
Non c’è alternativa all'azione politica. Nel secolo scorso era ben chiaro che le elezioni fossero uno dei campi dell’impegno politico. Sicuramente il più importante, decisivo in un sistema democratico maturo, ma non l’unico. Fare politica “dal basso” non è uno slogan elettorale. Comporta un lavoro costante e non è detto che possa regalare soddisfazioni nelle urne. È proprio nell'area della disaffezione che potrebbe essere tentata un’inversione di tendenza. Non nei sessanta giorni prima del voto, ma attivandosi da un’elezione all'altra. Puntando a ricostruire, spesso dalle macerie, una coscienza civile radicata e qualificata. Dalle lotte per rivendicare diritti basilari, dalle grandi battaglie civili e sociali, possono essere piantate radici che portino le persone a sentirsi soggetti attivi e consapevoli. Poi, verrà naturale convergere sull'opportunità di dotarsi di propri rappresentanti nelle istituzioni, da quelle di prossimità fino a quelle regionali e nazionali. Il percorso inverso non funziona. «Votatemi, vi rappresenterò, sarò la vostra voce...», anche se dichiarato con le migliori intenzioni, sa troppo di politica dei due tempi. Tu mi voti, io manterrò la promessa di rappresentarti. Si deve invertire il modello, passando all’utilizzo dei pronomi plurali. È vero, la partecipazione alle elezioni prevede la delega a una lista, a un candidato (sarebbe sempre meglio a una candidata). Ma come suonerebbe meglio se ciò avvenisse a conclusione di un processo per il quale si possa affermare «Ci rappresenti, ti voteremo, sarai la nostra voce...».
Lunedì 27 ottobre 2025
Le provocazioni, gli infiltrati, il continuo rischio che manifestazioni di massa potessero prestare il fianco a... Già, a che cosa? Alla riprovazione della stampa più o meno allineata? Alle critiche dei benpensanti? Noi avevamo nelle orecchie le strofe della canzone sul maggio francese di Fabrizio De André... "anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio..."
Poi abbiamo dovuto fare i conti con la strategia della tensione, con i servizi deviati, con colpi di pistola che arrivavano da tutte le parti. I servizi d'ordine che diventavano "ala militare" delle organizzazioni della nuova sinistra, l'esasperazione di chi, non vedendo sbocchi e alternative, pensava di risolverla lanciando un sasso.
"L'hanno trovato con un sasso in mano, che difendeva un compagno già morto" è una strofa della canzone Il vestito di Rossini di Paolo Pietrangeli che, a differenza della più nota Contessa, piaceva di meno ai rivoluzionari duri e puri.
Se l'avesse scritta qualche anno dopo, avrebbe potuto ricordarci un ragazzo che, senza alcun senso, impugna un estintore e muore a vent'anni.
Ecco, potendo, proverei a lanciare un invito alla massima attenzione. Con i fascisti che assaltano le scuole occupate e la polizia che cerca lo scontro non è facile. Noi potremmo provare a non fare mancare la nostra presenza, proporci, quando possibile, come forza pacifica di interposizione. Ma senza indulgenza verso le scorciatoie.
Al Congresso di fondazione del Partito Comunista Tedesco, Rosa Luxemburg intervenne affermando: “La conquista del potere non deve realizzarsi tutta d’un colpo ma progressivamente, incuneandosi nello Stato borghese fino a occuparne tutte le posizioni e a difenderle con le unghie e con i denti. E la stessa lotta economica dev’essere condotta mediante i consigli operai”. Aveva una vera e propria avversione, una ripulsa, per quelli che definiva i “colpi di stato ‘blanquisti’ di una ’minoranza decisa’ che scoppiano a ogni momento come colpi di pistola e, appunto perciò, sempre fuori del tempo”. Figurarsi come avrebbe potuto considerare chi, sfoltendo ulteriormente il concetto, si sarebbe concentrato sul colpo di pistola illudendosi, per tale via, di comportarsi da rivoluzionario?
Da Una Rosa nel cuore. Pag. 153
Martedì 14 ottobre 2025
Dove eravamo rimasti? Ah, alle argute riflessioni sulle elezioni in Calabria. Punti forti: l'astensionismo e il mancato "effetto Gaza". In estrema sintesi si potrebbe replicare con l'invito a leggere i classici. Tutto il dibattito del secolo scorso su "riforme o rivoluzione" e sul "parlamentarismo". Oppure gli scritti di Lenin su città e campagna.
Certo, in una società liquida come quella nella quale proviamo a muoverci e orientarci (con sempre maggiore fatica) il mio può apparire un invito ideologico e del tutto fuori dalle cose del mondo. Eppure, se ci fossero il tempo e il modo, proverei a dimostrare che alcune "categorie" possono tornare utili ancora oggi.
1. Esiste un partito dell'astensionismo? A ogni tornata elettorale, con sempre maggiore (interessata) enfasi, si evidenziano i risultati riportati dal "vero vincitore" delle elezioni. Il dato, sicuramente rilevante, viene tirato in tutte le direzioni: per dimostrare che, in realtà, hanno perso tutti; per ridimensionare il peso di chi, a seguito dell'esito elettorale, andrà a occupare posizioni di governo delle città, delle Regioni o del Paese; per criticare la parte che dovrebbe essere ideologicamente più vicina.
Se davvero fossimo di fronte a una forma di "astensionismo attivo", determinata da una forte volontà di cambiamento ma priva di adeguata rappresentanza, la situazione per citare Mao, sarebbe eccellente. Non a caso, con qualche eccezione, i tentativi di coprire il fianco sinistro con liste di "duri e puri" non riescono ad attirare nuovi elettori, se non in minima parte. L'ultimo esempio viene dalle elezioni in Toscana. Il 5% riportato dalla lista Toscana Rossa non ha incrementato il numero complessivo dei votanti (anche prendendo a riferimento le elezioni del 2015).
2. Come mai un elettore su due non partecipa più al voto? Se fossi un istituto di ricerca proverei a "stratificare" quest'altra metà della mela. Sappiamo tutto, settimana dopo settimana, sulle intenzioni di voto, soffermandoci sugli zero-virgola, eppure continuiamo a considerare i non elettori come un unico grande corpo omogeneo. E' probabile che una quota percentuale di non partecipanti al voto debba essere considerata fisiologica. Dai ritardi nella revisione delle liste elettorali, agli impedimenti dell'ultimo momento. Alle elezioni politiche del 1987 votò (ancora) l'89% degli aventi diritto. Dato sceso all'80% nel 2008. Realisticamente, si potrebbe far rientrare nel 20% la percentuale degli "irrecuperabili".
3. Dal voto "utile" al voto "inutile". Le distorsioni dei sistemi maggioritari
Si può individuare una criticità nei modelli elettorali cosiddetti maggioritari che sono stati introdotti verso la fine del secolo scorso? Presentati come "formula magica" per consentire di conoscere il nome del vincitore già la sera della chiusura dei seggi (siamo sicuri che sia un bisogno democratico?), i diversi sistemi elettorali tra premi di maggioranza, liste bloccate e sbarramenti all'entrata, hanno ridotto i margini di partecipazione democratica. Quanta delusione/frustrazione hanno indotto i risultati di Toscana Rossa che, con quasi 58.000 voti non riesce ad eleggere una propria rappresentanza in Consiglio regionale? E cosa staranno pensando gli oltre 28.000 elettori di AVS che in Calabria non avranno rappresentanza? Non consentire la piena espressione democratica del voto induce ulteriore disaffezione, anche perché i gruppi dirigenti che propongono liste autonome (da soli o in coalizione) hanno evidentemente valutato ed escluso altre soluzioni. Inoltre, quasi sempre, le liste "unitarie" non hanno mai avuto grande fortuna.
Si può ritenere ormai del tutto esaurito l'effetto del richiamo al "voto utile", che portò alla vittoria l'Ulivo di Prodi o che, in diverse città, comporta il compattamento dei (pochi) elettori al secondo turno che, non a caso, la destra vuole abolire? Per un ventennio ci siamo ubriacati di frasi fatte del tipo: "vince chi porta a votare i suoi" (e chi se ne fotte se sono sempre meno, basta che siano sufficienti) oppure "le elezioni si vincono al centro" (sebbene nessuno abbia mai saputo definire questa categoria dello spirito). Ma i commentatori sono sempre gli stessi, provano ad adattare la realtà alle proprie opinioni e piegano i dati (e a volta l'evidenza) in direzione delle proprie tesi preconcette. Serve qualcuna/o che irrompa sulla scena e gridi: "il re è nudo". I sistemi democratici borghesi sono in crisi in tutto l'Occidente. Ne possiamo fare a meno? Già nel secolo scorso, Rosa Luxemburg scriveva Nel moderno parlamentarismo viene tanto più crudelmente in luce il dissidio nell’essenza dello stato capitalistico”. Infatti, “il parlamentarismo deve servire a esprimere nell’organizzazione statale gli interessi di tutta la società. Ma, d’altro lato, esso è un’espressione soltanto della società capitalistica […] sono preponderanti gli interessi capitalistici" fino al punto che "non appena la democrazia tende a smettere il suo carattere classista e a trasformarsi in uno strumento dei reali interessi del popolo, le stesse forme democratiche vengono sacrificate dalla borghesia e dalla sua rappresentanza statale". Significava e significa ancora che, per quanto imperfetto, il sistema democratico deve essere difeso e, semmai, rivitalizzato. Sono le classi dominanti che ne possono fare a meno e, non a caso, alimentano forme spurie di democrazia rappresentativa, autoritaria ed espropriata delle sue funzioni vitali.
Infine, un tema su cui sarà necessario ritornare con maggiore attenzione. Non soltanto in Italia si registra una crescente divaricazione tra città e campagna. L'odio delle destre verso le così dette ZTL, una dimensione che, a seconda dei casi, può inglobare intere città metropolitane, è speculare alla diffusione delle fake-news, all'odio per gli stranieri, i diversi, tutti coloro che non rientrano nella predicazione stereotipata fascioleghista. Ad Enrico Mentana che in TV, dopo la pubblicazione dei risultati elettorali in Calabria si chiede, con enfasi, dove mai sia finito l'effetto Gaza dato che il risultato di AVS è inferiore al 3%, rispondono i dati della Toscana poiché, sommando AVS e Toscana Rossa, saremmo di fronte a un risultato quattro volte superiore. Banalmente, così come succede negli Stati Uniti o perfino in Ungheria, la destra vince a man bassa nelle campagne e perde sonoramente in città. Tutta gente con l'attico e il rolex? Esattamente all'opposto della narrazione tossica e strumentale, le città sono mediamente luoghi di maggiore sofferenza e contraddizioni abitative, lavorative, perfino ambientali.
Martedì 7 ottobre 2025
Lo confesso. Appartengo alla generazione che, dopo ogni elezione (dalle Comunali alle Europee) si dedicava all’analisi del voto. Questo rito, spesso caratterizzato da una forte connotazione autolesionistica, non si consumava al riparo di una tastiera, ma in riunioni fumose (poiché era consentito fumare) e fumose (poiché, spesso, non si riusciva a trovare facilmente il bandolo della matassa).
Queste riunioni hanno perso il loro fascino da quando sono state anticipate dagli interminabili dibattiti televisivi che hanno preso il posto delle sobrie trasmissioni di Tribuna Politica, nelle quali si parlava uno alla volta, sulla base dei risultati ottenuti, con limitata e regolamentata possibilità di contraddittorio. Pertanto, per noi militanti di base (o di vertice basso), anche dopo il rituale appuntamento televisivo, restava intatta la voglia di discutere, confrontarsi, ascoltare il punto di vista dei dirigenti e, nei casi più fortunati, del “nazionale”. Da tempo, invece, tutto si consuma nel corso di una “maratona Mentana”, diventata un consolidato format televisivo. Le valutazioni si archiviano in fretta e poi, via, in attesa della prossima partita. Sì proprio come con le partite di calcio. Si analizzano alla moviola i falli non fischiati, gli errori dell’allenatore, la formazione sbagliata e i cambi non effettuati per tempo.
Di grazia, possiamo sottrarci a tutto questo? Possiamo dare un senso, un altro senso, alla nostra lettura delle cose del mondo?
Tra le principali sciocchezze ascoltate dopo le elezioni nelle Marche e in Calabria, c’è sicuramente il tentativo di tirare per i capelli la mobilitazione per la Palestina. In sintesi: “non ci sarebbe stato un effetto Gaza” e il principale indicatore sarebbe proprio il risultato di AVS, senza alcun dubbio sotto le attese. Dicesi attese il raffronto con i sondaggi nazionali dai quali, a quanto pare, rischiamo di dipendere un po’ tutti, dando per scontato che l’elettorato non tenga conto delle dinamiche generali, dei fattori locali e della composizione delle liste.
Ora, è perfino superfluo evidenziare che – in TV lo ha dovuto spiegare con un disegnino Nico Stumpo del PD – la mobilitazione per Gaza non è nata perché c’erano in vista le elezioni regionali d’autunno. Soffermarsi su questo punto significa avvalorare le tesi deliranti della destra. Inoltre, le mobilitazioni hanno coinvolto prevalentemente le grandi città e – per fortuna – decine di migliaia di giovani perfino minorenni.
Vorrei provare a individuare alcuni elementi per analizzare, con un minimo di raziocinio, i risultati elettorali di Marche e Calabria.
Partiamo dall’astensionismo. Un dato sempre più allarmante. Se si confrontano i dati storici, un numero sempre minore di persone si reca alle urne. Poco dovrebbe consolarci che sia una tendenza estremamente diffusa nel mondo (nella parte di mondo che può, con modalità più o meno democratiche, recarsi alle urne). C’è chi ha studiato il fenomeno già dai tempi delle prime elezioni nei Paesi dell’Est Europa, dopo il crollo del muro di Berlino, disertate da un numero consistente di persone che la “democrazia” l’avevano appena guadagnata, o dalla crescente disaffezione negli Stati Uniti e nelle democrazie così dette “mature”. Dai primi risultati di questi studi, sembrerebbe emergere che non sia (tutta) colpa di Elly Schlein. Ma, anche volendosi soffermare al solo nostro Paese, tra coloro che alle 15.01 di lunedì 6 ottobre già stavano puntando il dito, si concentrano soggetti che fanno riferimento a schieramenti che, quando partecipano alle elezioni, raccolgono risultati imbarazzanti. Eppure non ci fanno mancare la loro saggezza. Per ultimo, temo che le percentuali di “astenuti” siano anche appesantite dalla composizione stessa delle liste degli elettori. Se è facile depennare i deceduti, è praticamente impossibile individuare gli aventi diritto al voto che, per motivi diversi, risiedono al di fuori della Regione di appartenenza e certo non rientrano per votare. Questo dato colpisce di più (per quanti punti percentuali non dovrebbe essere difficile stimarlo) le Regioni a forte tasso di emigrazione. Fonte ISTAT: nove calabresi su mille sono emigrati nel biennio 2023-2024. Naturalmente non c’è nessuna correlazione diretta con gli orientamenti elettorali, ma questo dato incide sulla stratificazione sociale di quella Regione. La Calabria, così come le Marche, è una terra di coltivatori e allevatori, di artigiani, di piccoli operatori commerciali e turistici e di pubblici dipendenti. E dal sistema pubblico dipende anche un indotto più o meno esteso con relativa gestione privatistica (clientelare e padronale) dei servizi ai cittadini (si pensi alla sanità). Insomma, non viene a determinarsi un granitico blocco sociale propenso al cambiamento. Le parole d’ordine della destra, anche nella versione meno cruenta che è delegata a Forza Italia, fanno leva sugli interessi economici individuali (primo tra tutti la possibilità di eludere o evitare del tutto le tasse) e sulla conservazione dello stato delle cose esistenti. Poi, certo, non aiuta che dall’altra parte non si riesca a fare leva su altri “sentimenti”. Se si ha voglia di porsi interrogativi che meritino una riflessione che vada oltre il “post” di giornata, chiediamoci dove sia mai finito quel 16,17% di voti che, soltanto quattro anni fa, in Calabria fu raccolto da Luigi de Magistris e dalle liste che si erano coagulate intorno a un tentativo di “sparigliare” la situazione data.
Se proprio dovesse risultare complesso parlare di programmi, quanto meno un riferimento alla suggestione di parole d’ordine mobilitanti dovrebbe risultare indispensabile. Temo che uno dei temi imprescindibili sia e continui ad essere il lavoro. Il lavoro “buono” – senza aggettivi, come avrebbe detto Massimo Troisi – per scacciare il lavoro precario, il lavoro nero, il lavoro sommerso, il lavoro finto autonomo, il lavoro a tempo determinato, il lavoro sottopagato. Nelle aree interne, sottoposte a spopolamento e invecchiamento, bisogna invertire la tendenza. Ma con fatti concreti. Proposte che riescano a tenere insieme le popolazioni residenti e nuovi flussi di popolazione in grado di contrastarne il declino, che non deve fare rima con destino. Quanta nuova economia può mettere radici nelle aree più depresse e difficili del Sud? Perché non farsi carico di proposte di sviluppo territoriale in controtendenza rispetto alla sempre più asfissiante e impoverente pressione sulle grandi e medie città?
Per farlo, non servono geometri incaricati di delineare perimetri o agronomi, intenti a definire la qualità del campo. Serve riprendere in mano le categorie dell’economia, della sociologia della demografia, dell’ecologia e della geografia sociale. Poi, dovrebbe venire naturale presentarsi insieme alle elezioni.
Un’ultima riflessione sulle liste elettorali. In attesa di tempi migliori, le elezioni arrivano puntuali e bisogna affrontarle con le risorse di cui si dispone. Mi sembra già una novità che da qualche tornata non sia necessario, ogni volta daccapo, andare a cercare sulla scheda elettorale il simbolo adottato per l’occasione. Ma, per una lista che prevalentemente raccoglie voti d’opinione, è indispensabile essere attenti a tutti i fattori, a partire dalla legge elettorale che, come è noto, varia al variare della tipologia di elezione in ballo. Turno secco o doppio turno, sbarramento al 4%, numero di preferenze a disposizione dell’elettore, sono aspetti all’apparenza tecnici, ma che – per chi non vuole limitarsi a una testimonianza – rilevano anche nel rapporto con le altre liste con le quali si costituisce una coalizione. Non riuscire ad eleggere un consigliere regionale per uno 0,15% (come in Calabria), sollecita una riflessione sulla attrattività delle liste. Evitiamo equivoci. Gli “acchiappavoti” sono perfino controproducenti e, spesso, ci lasciano il giorno dopo. Ma, non da meno, la cura nella compilazione delle liste dovrebbe essere accurata. Se si ragiona partendo dal dato relativo all’ultimo sondaggio televisivo, si va incontro a una sconfitta annunciata. Il sostegno degli elettori deve essere conquistato ogni volta daccapo. Si può realisticamente ritenere che l’elettore potenziale di AVS spazi tra l’astensione “attiva” e il voto al PD. La differenza la fa (anche) la qualità delle liste. Alle ultime elezioni europee abbiamo avuto il traino di candidature importanti, a partire da Ilaria Salis e Mimmo Lucano. Alle precedenti elezioni politiche funzionarono le candidature di Ilaria Cucchi e di Aboubakar Soumahoro (al di là delle vicende familiar-giudiziarie di quest’ultimo, rispetto alle quali continuo a pensare che sarebbe stato necessario gestirle diversamente).
Ecco, allora, che risultano incomprensibili, strumentali e perfino interessate, le obiezioni rispetto all’ipotesi della candidatura di Nichi Vendola in Puglia. Qualcuno – che begli amici – punta a non far superare il quorum del 4% alla lista di AVS?
E in Campania cosa succederà? Incontrando cartelloni pubblicitari per strada e seguendo Facebook, sto lentamente acquisendo informazioni in merito alla composizione delle liste di AVS. Sarà un segno dei tempi ma, in tutta onestà, immaginavo una modalità meno distillata. E, soprattutto, più ragionata. Che più candidati concorrano per arrivare in una posizione utile per risultare eletti ci può stare. Mano, francamente, la corsa affannosa agli “accoppiamenti” e le strategie da cortile. AVS si gioca una partita delicata. A un segmento del suo elettorato potenziale, tutto il teatrino che si è recitato intorno alla decisione di candidare Roberto Fico non è andato a genio. Perfino la querelle interna al PD e all’elezione del segretario regionale, che avrebbe dovuto interessare esclusivamente quel partito, scoraggia una fetta di potenziale elettorato. Mi era sembrato di capire che la lista di AVS potesse aprirsi e aggregare alcune importanti esperienze territoriali ma, per quello che si comprende, non se ne farà nulla. Quindi attenzione.
Tra voto a Potere al Popolo/Rifondazione/Comunisti, ulteriore astensionismo e voto di protesta a PER, si rischia di fare la parte dei vasi di coccio tra le botti di ferro. C’è tempo per dare una bella sterzata. Rafforzare la lista con candidature di servizio, differenziare la rappresentatività delle aree territoriali e degli ambiti di impegno politico-sociale, per puntare a eleggere una candidata/un candidato di assoluto prestigio. Anche, se fosse necessario, accantonando pur legittime aspirazioni individuali.
E poi, anche per la Campania, è opportuno provare a scegliere i temi sui quali impegnarsi prioritariamente, raccogliendo e trasformando in programma (anche predisponendo proposte di legge) le istanze delle tante aree di disagio e sofferenza sociale che caratterizzano la nostra Regione. Le potenzialità ci sono tutte.